Quando ‘gay’ non basta. L’incrocio con le altre minoranze

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1) Intersezionalità
2) La [mia] storia
3) Lezioni apprese
4) La situazione attuale

Non siamo fatti di un unico elemento.
Io, ad esempio, sono allo stesso tempo gay, uomo, adulto, in coppia, bianco, di ceto medio, italiano in Italia, etc.
> Alla domanda ‘Qual è l’aspetto più importante della tua identità?’ non so come reagire. La mia risposta, probabilmente, dipende dal contesto e dal momento. In ogni caso, la mia classifica è diversa da quella di altri.

Ognuno di noi è infatti la combinazione di una serie di componenti. L’esito finale è la nostra unicità.
Non esistono due persone LGBTQI (Lesbiche, Gay, Bisex, Trans, Intersex, Queer) identiche tra di loro. Le motivazioni, le necessità, le esperienze sono diverse. Una persona trans ricca e famosa, ad esempio, fa una vita molto diversa rispetto ad una persona altrettanto trans ma povera ed emarginata.
> Quale modello di persona LGBTQI abbiamo preso preso a riferimento per definire le priorità della nostra comunità nei confronti di Governo e Parlamento?
> Vi sono aspettative, bisogni, risorse che, oggi, non sono sufficientemente rappresentate nelle nostre richieste al Paese, a causa del fatto che alcune persone LGBTQI hanno meno voce di altre?

In conclusione, multidimensionali non sono soltanto le identità, ma anche le discriminazioni che si fondano sui tratti personali (razzismo e omofobia, ad esempio). Queste discriminazioni non possono essere né comprese né affrontate efficacemente se dimentichiamo il contesto in cui si sviluppano.

1)
INTERSEZIONALITA’

Di questi fondamentali temi si interessa la teoria intersezionale, così sintetizzata da Wikipedia:

“La teoria suggerisce e esamina come varie categorie biologiche, sociali e culturali (come il genere, l’etnia, la classe sociale, la disabilità, l’orientamento sessuale, la religione, la casta, l’età, la nazionalità e altri assi di identità) interagiscano a molteplici livelli, spesso simultanei.
La teoria propone che occorre pensare a ogni elemento o tratto di una persona come inestricabilmente unito a tutti gli altri elementi per poter comprendere completamente la sua identità. […]

L’intersezionalità afferma che le concettualizzazioni classiche dell’oppressione nella società – come il razzismo, il sessismo, l’abilismo, l’omofobia, la transfobia, la xenofobia e tutti i pregiudizi basati sull’intolleranza – non agiscono in modo indipendente, bensì che queste forme di esclusione sono interconnesse e creano un sistema di oppressione che rispecchia l’intersezione di molteplici forme di discriminazione.

[… Ad esempio] Anziché intendere la salute delle donne esclusivamente attraverso il genere, è necessario considerare [anche] altre categorie sociali, come la classe, la (dis)abilità, la nazionalità o l’etnia per comprendere completamente la gamma di problemi di salute delle donne.”

Non si tratta di una sfida facile, visto che:

  • Questo approccio richiede di aggiungere sempre nuovi livelli di complessità. Pare pertanto più adatto all’analisi accademica, speculativa, piuttosto che all’intervento nella società, alla soluzione di problemi
  • Le organizzazioni a tutela dei diritti e della dignità delle persone sono tradizionalmente nate attorno ad un unico tratto dell’identità – quello che ‘ci tocca più da vicino’, che conosciamo bene: il genere, o l’omosessualità, la disabilità, la vecchiaia, etc. E’ in questo modo che siamo abituati a ragionare. Adottare l’approccio intersezionale ci obbliga, invece, a ‘uscire da casa nostra’, dalla nostra ‘zona di comfort’, per cercare altre ipotesi interpretative e, quando utile, farle nostre. L’intersezionalità è contaminazione

2)
LA [MIA] STORIA

Il mio avvicinamento a questo stile di pensiero, in cui mi riconosco pienamente, risale al 2000, cioè all’inizio del mio impegno pubblico nella comunità LGBTQI.
Allora lo chiamavamo ‘Approccio orizzontale’.

La situazione era molto diversa rispetto all’attuale.
All’interno della comunità LGBTQI, non avevamo infatti né persone con un’identità esplicitamente composita, né segnalazioni di discriminazione multipla da risolvere. O per lo meno così ci pareva.
Eravamo esperti di orientamento sessuale e basta. L’unico altro tratto di identità di cui avevamo una certa esperienza era il genere: era infatti noto, grazie soprattutto alle riflessioni critiche poste dalle lesbiche, che la vita di un uomo omo-bisessuale era per molti aspetti diversa da quella di una donna omo-bisessuale.

La spinta ad occuparci di intersezionalità ci veniva dall’esterno, dall’Unione europea, che in quegli anni aveva approvato due importanti documenti:

Il clima era di fiducia e attesa: per la prima volta, tramite l’Europa, avevamo la possibilità di inserire nella legislazione italiana delle tutele per le persone omo-bisessuali. Dall’interno non ce l’avevamo ancora fatta.
Al fine di conseguire questi obiettivi, avevamo due necessità:

  • Nell’immediato, costruire un consenso trasversale attorno a questi documenti europei, con particolare riferimento per il secondo, che aveva infatti bisogno di un passaggio nel Parlamento italiano. Un paio di anni più tardi, la Direttiva è stata recepita dal Governo italiano tramite il Decreto Legislativo 9 luglio 2003 n. 216, pur con qualche ‘controversia’ (tra cui l’esenzione dall’obbligo di non discriminazione nei confronti delle persone LGBT per i datori di lavoro di tipo religioso)
  • Più in generale, costruire una cultura nuova nel nostro lavoro di difesa dei diritti – una cultura che allargasse gli orizzonti anche agli altri campi di discriminazione. Ricordo che in quegli anni, al fine di dare avvio e agevolare questo processo, l’Unione Europea finanziò diversi progetti transnazionali su questi temi

E’ con questo scenario sullo sfondo che abbiamo cominciato, come associazioni LGBT, con la legittimazione dell’Europa, a prendere contatto, conoscerci e collaborare con associazioni che lavoravano sull’immigrazione / di cittadini stranieri e sulla disabilità / di persone con disabilità. (L’incrocio con quelle specializzate in anzianità è invece avvenuto più di recente.)
Ricordo che fu un periodo complesso ma positivo.
Durante le manifestazioni LGBTQI, cominciò ad essere presente sul palco l’interprete LIS per le persone non udenti.
Inoltre, molti volontari LGBTQI lavoravano nel campo dei servizi alla persona. Me compreso. Era quindi gratificante riuscire, forse per la prima volta, a ‘unire i fili’ della nostra vita, ad utilizzare cioè, nello stesso momento, competenze derivanti da entrambe le esperienze – quella personale e quella professionale.

3)
LEZIONI APPRESE

Ho imparato molte cose applicando la teoria intersezionale alle tematiche LGBTQI.
Alcune le ho capite subito; altre in seguito.

Se ripenso ai quei primi anni di sperimentazione, realizzo che sono state esclusivamente le organizzazioni LGBT a fare un passo in direzione delle altre realtà. Forse perché era più vitale per ‘noi’, piuttosto che per ‘loro’, uscire dalla nostra ‘tana’. Forse perché attorno a ‘noi’ aleggiavano – e aleggiano tuttora – stereotipi e pregiudizi, difficili da superare.
Questo per dire che, se si intende dare avvio ad una progettualità di questo tipo, è un errore dare per scontato che la condizione sociale dei partner sia lo stessa e sempre neutrale.

Un altro punto riguarda le parole: è stato utilissimo raccontarci i concetti fondamentali del pensare e dell’agire delle nostre organizzazioni. Fare tesoro delle riflessione altrui per capire meglio se stessi, pur nei limiti del possibile, è una strategia assolutamente vincente, secondo me. La chiamavano ‘fertilizzazione incrociata‘.

  • A ‘noi’ hanno fatto un sacco di domande sulla visibilità e sui ‘ghetti che ci costruiamo da soli’
  • Le femministe ci hanno ispirato molto su empowerment e riproduzione sociale
  • I colleghi del movimento per la vita indipendente sono stati illuminanti sulla differenze tra menomazione, disabilità e handicap
  • I colleghi che si occupavano di immigrazione ci hanno aperto gli occhi sui rischi del neo-colonialismo e sulla polisemanticità del termine ‘integrazione’

E’ anche grazie a questi incontri / confronti / scontri alla pari, che è stato possibile comprendere più a fondo, valutare la portata e, quando necessario, andare oltre al decalogo delle ‘leggi – date per scontate – sulla diversità’:

  • La diversità è sempre bella e, in fin dei conti, per tutti arricchente
  • I gruppi discriminati sono più sensibili, su questi temi, degli altri
  • I gruppi discriminati discriminano di meno o non discriminano affatto
  • A pensarci bene, facciamo tutti parte di almeno una minoranza
  • Se fossimo tutti consapevoli di far parte di almeno una minoranza, collaboreremmo invece che competere tra di loro, e non esisterebbe più il problema della maggioranza oppressiva
  • La discriminazione lede anche chi discrimina
  • Esistono diverse forme di discriminazione, ma le ragioni strutturali sono sempre le stesse; i gruppi discriminati hanno pertanto una base comune su cui allearsi
  • Se un gruppo discriminato riesce ad emanciparsi, non lede un altro gruppo discriminato
  • La discriminazione dipende dall’ignoranza e dalla lontananza
  • Se le persone si conoscessero autenticamente e senza filtri non vi sarebbe oppressione

4)
LA SITUAZIONE ATTUALE

La situazione odierna è più ricca e, secondo me, migliore di quella di 20 anni fa.
La differenza principale riguarda il fatto che, finalmente, oggi vi sono vari attivisti LGBTQI che:

  • Hanno fatto coming out con un’identità multipla – essendo, contemporaneamente, anche migranti, con disabilità, anziani
  • Al di là della loro identità personale, hanno costituito reti ed organizzazioni che si occupano esplicitamente ed in modo competente e specializzato di questi temi

Anche grazie al loro continuo stimolo, nel 2018 l’intersezionalità è diventata uno stile quasi imprescindibile di ragionamento e lavoro – sebbene rimangano molte aree di miglioramento.
Lo sguardo sulla diversità è più articolato e forse più disincantato di un tempo, con mia grande soddisfazione. Alcune ingenuità del decalogo di cui sopra sono state evidenziate, anche perché sono state chiaramente infrante dai fatti (ad esempio, così mi raccontano, dalle contestazioni di stampo razzista al recente Pride di Bologna). I social media, del resto, facilitano e amplificano l’emergere di queste dinamiche.

Un altra diferenza rispetto al passato è che, sebbene siano ancora poche, sono sempre più frequenti le accuse di discriminazione sorte all’interno della comunità LGBTQI, talvolta di natura multidimensionale, rispetto a quelle più ‘tradizionali’, cioè provenienti dall’esterno, dalla società.

Siamo alla ricerca di un nuovo equilibrio tra differenza e uguaglianza.
Del resto, non è vero che siamo tutti uguali:

  • Alcuni gruppi sono meno stigmatizzati di altri e possono quindi contare su una probabilità maggiore di sostegno da parte della società (esempio: persone con disabilità vs. LGBTQI)
  • C’è chi ha il potere di nascondere il proprio tratto identitario potenzialmente discriminato (i gay, ad esempio) e chi invece è obbligatoriamente pubblico fin da subito (le persone con disabilità fisiche evidenti e dalla nascita, ad esempio). E’ evidente come questo aspetto faccia una grande differenza nelle strategie di vita
  • Infine, c’è chi può sempre contare, specie in età evolutiva, sulla solidarietà della propria famiglia di origine, visto che questa condivide spesso lo stesso status (è il caso, ad esempio, dei giovani migranti), e chi invece non può darla per scontata e deve invece spesso trovare conforto al di fuori di essa (ad esempio, i gay). Avere i propri genitori a favore o contro è un distinguo con un grande impatto su di sé

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