L’inclusione è possibile? E la tolleranza è sufficiente?

segre

1) Il contrario di escludere
2) Non solo immigrati
3) Una società eterogenea, con più amici e più nemici
4) Le idee non sono panda
5) Opinioni e comportamenti

A quale obiettivo dobbiamo puntare quando lavoriamo per le pari opportunità, quando ci impegniamo contro le discriminazioni?
Cos’è possibile ottenere in questo mondo, e cosa rimane invece un bel sogno?

1)
IL CONTRARIO DI ESCLUDERE

Le persone sono escluse quando viene loro impedito di partecipare, di contribuire, di utilizzare le opportunità della società.
Le persone escluse sono poste al di fuori dei margini.

Diversi sono i modi possibili per affrontare questo problema e migliorare le loro condizioni di vita.
Non c’è un’unica soluzione.
Al contrario, almeno tre sono i tipi di intervento che sono stati realizzati:

  • Differenziare >> Cioè offrire servizi e spazi dedicati, specifici rispetto alle esigenze delle minoranze, e quindi diversi rispetto a quelli rivolti al resto della popolazione. Da un lato, questa soluzione, se di qualità, è la più protettiva e – probabilmente – la più rispettosa delle differenze; dall’altra lato, essa tende a riprodurre la distanza e l’estraneità. Secondo alcuni osservatori, questa soluzione tende a segregare, a creare dei ‘ghetti’ – Nel bene e nel male
  • Integrare >> Cioè offrire occasioni di inserimento nella società, pur nel rispetto della diversità. Minoranze e maggioranza sono messe in contatto; è promossa l’interazione reciproca, ma non la loro fusione. Questo modello, per un verso, riconosce l’esistenza delle differenze; per l’altro verso, ricerca uno sfondo comune, alcuni principi fondamentali per il vivere assieme, condivisibili da tutti. Secondo i suoi critici, questa soluzione crea una società poco coesa al proprio interno e obbliga gli individui a rimanere ancorati al proprio gruppo – E chi ne vuole uscire?
  • Includere >> Cioè offrire uno spazio – pubblico – al cui interno tutti sono pari, tutti si confrontano e competono direttamente, indipendentemente delle proprie appartenenze. E’ l’ipotesi – forse – più avveniristica, perché punta ad una ‘società nuova‘, che assorbe e dissolve i legami sociali di partenza, trasforma gli individui e li rende uguali tra di loro. Secondo alcuni ricercatori, questa tipo di società appiattisce le eterogeneità, ‘normalizza’ le esistenze e, in fin dei conti, rende le persone funzionali ad un unico modello di riferimento – A vantaggio di chi?

In definitiva, nessun modello è perfetto.
Ognuno presenta dei pro e dei contro, delle opportunità e dei rischi.
E’ opportuno rinunciare a questi principi assoluti per cogliere invece, giorno per giorno, il meglio che ognuno di essi può offrire? Il segreto è la loro contaminazione, la sperimentazione di nuove combinazioni dei loro elementi?

2)
NON SOLO IMMIGRATI

Al giorno d’oggi i concetti di differenziazione, integrazione e inclusione sono per lo più discussi in riferimento all’ingresso e alla presenza, nelle nostre società, dei cittadini stranieri.

Le molteplici sfide poste dalle pluralità sono però molto più ampie di quelle specifiche delle immigrazioni e coinvolgono appieno anche le persone LGBTQI (Lesbiche, Gay, Bisex, Trans, Queer, Intersex).
Pur con alcune differenze, il dibattito sul futuro del rapporto tra stranieri e autoctoni ha molti aspetti in comune con quello sul futuro del rapporto tra le persone LGBTQI e le persone eterosessuali.

3)
UNA SOCIETA’ ETEROGENEA, CON PIU’ AMICI E PIU’ NEMICI

E’ essenziale notare come la nostra società sia sempre più una società composta da differenze.
Le appartenenze, le convinzioni e i valori – più o meno ‘non negoziabili’ – si moltiplicano.
Parallelamente, sempre più storie di minoranza trovano lo spazio per ‘venire fuori’. Aumentano i canali di espressione di sé. Ci sentiamo diversi rispetto a chi circonda, e su questo pensiero fondiamo buona parte della nostra auto-stima. Più di qualche anno fa, oggi possiamo ‘sviluppare noi stessi’ nel modo che preferiamo.
Gli elementi che unificano e aggregano, da un lato, e i riferimenti ereditati dal passato, dall’altro lato, tendono a diventare meno attrattivi; vengono invece premiate la distanziazione e l’innovazione. Le galassie si espandono e si articolano: succede anche a quella LGBTQI, il cui acronimo diventa infatti sempre più lungo, con l’aggiunta di nuove lettere e nuovi gruppi identitari.
Questo trend pare strutturale: sarà cioè sempre più così, per lo meno nel medio termine.
In generale, si tratta di una buona notizia per i gruppi, come il nostro, finora messi sotto silenzio.

– In una società di questo tipo, come fa notare qualcuno, si pone il rischio di una crescente solitudine.
Ciò è soprattutto vero per noi  persone LGBTQI.
E’ fondamentale trovare nuove forme di comunanza, di solidarietà, che sappiano andare al di là dei legami di sangue tradizionalmente intesi.

– La maggiore auto-determinazione, inoltre, ha una duplice faccia: a fronte del consolidamento delle nostre identità LGBTQI, mai come ora appaiono ragionate e forti anche le istanze esplicitamente orientate contro di noi, talvolta fondate sulla libertà di coscienza.
Oggi sulle questioni LGBTQI c’è sia più visibilità, sia più avversione.
Non si tratta di un cambiamento solamente quantitativo: le persone che intenzionalmente si oppongono a noi non solo sembrano in aumento, ma sono anche sempre meno mosse da mero pregiudizio e da semplice ignoranza – ovvero da questioni che, in astratto, potrebbero essere risolvibili con un’azione informativa o di sensibilizzazione. Al contrario, fondano le proprie posizioni su una serie di riflessioni ed evidenze che, dal loro punto di vista, consentono un alone di legittimità.
Questo è un cambio di paradigma sostanziale, che ci interroga sul tipo di società che desideriamo, nonché sul nostro modo di agire.

Che fare, quindi? Il destino è convivere ognuno per sé, giustapposti, non valicando i confini del campo altrui? O vi sono, invece, altri percorsi?
Secondo me, sono soprattutto due i dilemmi che dobbiamo affrontare al riguardo. Concernono entrambi la libertà di pensiero ai tempi del relativismo.

4)
LE IDEE NON SONO PANDA

Una prima sfida riguarda il pensiero per cui tutte le idee sono sostanzialmente equivalenti, visto che non ce n’è una che rispecchia l’unica Verità; di conseguenza, tutte vanno non solo rispettate ma anche preservate.
Vi si appellano spesso i fautori dell’una o dell’altra fazione – alla stregua di un’ultima linea di difesa di sé e della propria posizione: ‘Nonostante tutto, esigo rispetto per la mia opinione’.

Pare un principio condivisibile in assoluto.
Ma è invece controverso, perché si rivela spesso una scivolosa strada a fondo cieco, che, secondo me, dobbiamo saper destreggiare meglio di quanto abbiamo finora fatto.

E’ chiaro che tutti gli esseri umani sono da rispettare in quanto tali.
Il punto è però che, allo stesso tempo, non tutte le idee sono rispettabili in quanto tali.
Perché alcune sono criminali (l’apologia dei regimi totalitari o della violenza, ad esempio); altre promuovono, difendono, alimentano, istigano l’odio e l’esclusione; altre diffamano; altre ancora sono – più semplicemente – sbagliate in quanto non fondate sull’evidenza (quelle anti-scientifiche, ad esempio).
Come ben scrive Francesco Costa nel suo blog:

“In una società libera le idee non godono di nessun particolare diritto: possono essere contestate, maltrattate, prese in giro, persino insultate. […].
Allo stesso modo, chi vuole difenderle può farlo usando degli argomenti, se ne ha, e non pretendere un malinteso diritto a ottenere rispetto per le proprie idee.”

Le idee vanno giudicate, criticate, in certi casi – quando necessario – persino superate.
Perché non sono panda.

“Col passare dei decenni e dei secoli alcune idee sono scomparse, per fortuna; altre scompariranno in futuro, sostituite da altre che poi forse un giorno saranno a loro volta sostituite.
È il modo in cui cambiano e progrediscono le società libere.”

E’ attraverso l’incontro e lo scontro tra idee che avviene il cambiamento – culturale, sociale, politico, economico, legislativo.
L’estinzione di alcune idee non è una perdita per l’umanità; anzi, in taluni casi è persino auspicabile.

La conclusione è duplice.
La comunicazione:

  • Sia non ostile (molto interessante è il relativo Manifesto)
  • Allo stesso tempo, però, non rinneghi la ricerca del più giusto, non taccia in nome di una falsa idea di democrazia

5)
OPINIONI E COMPORTAMENTI

Un’altra sfida concerne l’oggetto dei nostri interventi: dobbiamo occuparci di ciò che le persone pensano oppure di come le persone si comportano (con una particolare attenzione alla sfera pubblica, dell’interazione con gli altri)?
Dobbiamo mirare a cambiare le opinioni, le credenze, oppure è più opportuno concentrarci sui comportamenti?
Vogliamo persuadere, convincere, far cambiare idea se necessario, oppure stabilire e far rispettare un livello accettabile di convivenza, sanzionando alcune azioni e premiandone altre?

E’ ovvio che vorremmo che tutti condividessero gli stessi valori di uguaglianza, dignità, rispetto. Se così fosse, infatti, non dovremmo occuparci di discriminazioni.
Ma è uno scenario realistico, conseguibile – specie in una società come la nostra?

In tutta franchezza, ho varie perplessità al riguardo.
A me pare un obiettivo impossibile.

E’ forse per questo motivo che valuto positivamente un valore troppo spesso deprezzato: quello della tolleranza – che, secondo me, deve significare sia indulgenza verso ciò che è diverso da sé, sia tutela attiva delle minoranze.

Per approfondire questo discorso, trovo convincenti le riflessioni di coloro che si occupano di gestione delle diversità all’interno delle organizzazioni di lavoro.
Brian McNaught si esprime così al riguardo (in: “Gay Issues in the Workplace”, St. Martin’s Press – New York, 1993):

“Modificare i comportamenti omofobici [sul posto di lavoro] non significa cambiare i valori o le convinzioni delle persone. […]
Io credo che ognuno abbia il diritto di credere in ciò che vuole.
Le aziende non dettano o impongono valori.
Gli interventi contro le discriminazioni si occupano di comportamenti, non di pensieri.”

In un altro passaggio chiarisce:

“Va riconosciuto che, alcune volte, le persone temono che il loro sostegno nei confronti di una minoranza possa essere interpretati come una posizione di approvazione.
Ciò potrebbe essere in contrasto con la loro fede religiosa.
La tolleranza della differenza non significa accettazione di uno stile di vita. […]
Le persone dovrebbero poter discutere dei propri sentimenti. […] Dovrebbero essere messe in grado di esprimere il proprio disagio. Ma questo può e deve essere realizzato senza utilizzare termini derogatori, senza perpetuare stereotipi, senza astio – tutti aspetti che devono essere invece sanzionati dall’organizzazione.” 

In merito alle persone LGBTQI, rimangono in ogni caso delle complessità specifiche:

“Quando vogliamo che tutti i bagni siano senza barriere architettoniche, non stiamo dicendo che tutti dovrebbero avere una disabilità.
Di più, quando vediamo un film sul razzismo, non stiamo affermando che le persone di colore sono migliori di noi.
Quando discutiamo di minoranze sessuali, invece, queste critiche, paure, incomprensioni emergono ancora, e condizionano fortemente il contesto. Dobbiamo tenerne conto, per essere efficaci.”

Le buone pratiche sviluppate nell’ambito di tale approccio di management (tecnico, pragmatico, di medio raggio), possono essere applicate anche a livello della società nel suo complesso? Con quali modificazioni e accorgimenti?
Ancora, fino a che punto è possibile escludere esplicitamente dagli interventi i sistemi di pensiero, le idee e i valori? E’ sostenibile, nel medio e lungo termine, una soluzione per cui si è liberi di credere – privatamente – in una cosa ma è richiesto di comportarsi – pubblicamente – in un’altra?

La discussione, certamente, è tuttora aperta.
Ma non parte da zero.

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