1) Il Pride è cambiato
2) Cambiare ulteriormente il Pride?
Lo scorso 22 settembre, a Palermo, si è tenuto l’ultimo Pride del 2018 in Italia.
Quest’anno la stagione dei Pride è stata piuttosto lunga: è infatti durata più di 4 mesi.
Il primo appuntamento si è tenuto 1.500 km più a Nord: il 19 maggio a Bergamo.
Il Pride è oggi l’evento più importante per la comunità LGBTQI (e per i suoi detrattori).
E’ una manifestazione collettiva, aperta, politica, di strada e di piazza.
Ha molti colori: della protesta, dell’incontro, del rito, del ricordo, del divertimento, della rabbia, della rivoluzione, dell’attrazione e dell’eccitazione, della gioia, della rivendicazione, dell’impegno. Vari sono anche i motivi per cui le persone scelgono di parteciparvi.
Il Pride è un’importante vetrina, a due facce:
- Nei confronti della società, visto che è l’evento LGBTQI più visibile dell’anno. Il Pride è un momento di grande esposizione; è un palcoscenico sotto i riflettori. Lo sanno bene anche quei personaggi e gruppi che, approfittando dell’occasione, mirano ad aumentare la propria popolarità opponendosi pubblicamente ad esso
- Nei confronti della nostra comunità e di noi stessi in quanto persone LGBTQI. Durante il Pride ci possiamo contare, vedere, incontrare. Non vi sono altri contenitori di analoga importanza, in grado di richiamare così tanta gente. Ci osserviamo e ci interroghiamo: Stiamo aumentando o diminuendo? Stiamo cambiando o rimaniamo sempre gli stessi?
Ovviamente, non tutte le persone LGBTQI aderiscono al Pride.
C’è chi non ne ha ancora avuto la possibilità; chi è d’accordo con l’idea in sé; chi non vuole farsi vedere in pubblico accanto a componenti della comunità LGBTQI che non apprezza.
Non sono disponibili dati recenti sul tasso di partecipazione delle persone LGBTQI al Pride.
Secondo “Modi Di”, un’indagine sociale realizzata nel 2005 (piuttosto datata, quindi) con un campione piuttosto ampio ma comunque non rappresentativo, è andato ad almeno ad un Pride il 40,7% degli uomini omo-bisessuali ed il 45,2% delle donne omo-bisessuali. Si tratta quindi di una minoranza.
Sia tra gli uomini che tra le donne, coloro che abitano nelle regioni del Centro Italia sono i maggiori frequentatori del Pride; segue il Nord e, piuttosto staccato, soprattutto tra gli uomini, il Sud e le Isole.
Secondo me, del resto, queste percentuali sono relativamente cresciute in quest’ultimo decennio, anche grazie ad una serie di importanti cambiamenti che il Pride ha incontrato in Italia.
1)
IL PRIDE E’ CAMBIATO
In questo periodo il Pride italiano compie 40 anni, visto che a fine anni ’70 sono accaduti due eventi storici che vengono presi a riferimento per segnarne la ‘nascita’:
- L’organizzazione, nel 1978, a Torino, dei primi due eventi specificamente correlati alle celebrazioni internazionali del Gay Pride: un congresso politico (del Fuori! – Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano) e la settimana del film omosessuale (dal 19 al 25 giugno)
- Il primo corteo, nel 1979, a Pisa, contro le violenze subite da persone omosessuali. Si tenne il 24 novembre, venne organizzato dal Collettivo Omosessuale Orfeo e fu la prima manifestazione LGBT autorizzata dalla Questura e patrocinata dal Comune di una città. Vi parteciparono circa 500 persone
Come ogni movimento collettivo, anche il Pride si è evoluto e adattato negli anni – soprattutto nella forma, ma – secondo alcuni – anche nella sostanza.
Il Pride non è sempre stato così come lo vediamo adesso.
Io credo che 4 siano le principali linee di questo mutamento:
- Il concetto di ‘Pride’ è oggi molto più recepito dall’opinione pubblica
Al punto che il suo brand viene sempre più spesso utilizzato in contesti di altro tipo (ad esempio: ‘Periferia Pride’). C’è poi chi, spesso in piena autonomia e senza entrare nei circuiti ufficiali, etichetta come ‘Pride’ un proprio evento locale (‘Love Pride’). C’è, infine, anche chi, in aperta contrapposizione al ‘Gay Pride’, ha tentato, finora senza successo, di lanciare il cosiddetto ‘Etero Pride’.
Quando si dice ‘Pride’ e ‘Persone LGBTQI’ sempre più persone sanno di che si parla.
Non si tratta però di un trend univoco. Al contrario, le contraddizioni si presentano puntualmente ogni anno – alle volte fomenate dagli avversari della dignità delle persone LGBTQI, altre volte tutte interne alla nostra comunità, e mai pienamente risolte.
- Il Pride è sempre più un calendario di eventi
Il Pride non è più soltanto la parata in sé, bensì un insieme di eventi che coinvolge ed interpella i vari soggetti della comunità locale.
La marcia è l’evento finale del calendario ed è il momento più collettivo e pubblico; ma non ne esaurisce il significato.
Il Pride offre un ventaglio di opportunità.
Il fatto che sia crescente il numero di studiosi e artisti che si occupano ed investono esplicitamente sulle tematiche LGBTQI rende possibile l’organizzazione di eventi sempre più ricchi ed eterogenei.
- La base sociale del Pride si è notevolmente ampliata e diversificata
Non vi partecipano più soltanto i gay e le lesbiche più motivati e impegnati, ma anche le altre persone LGBTQI, molte persone eterosessuali che ci sostengono o, più semplicemente, amano divertirsi senza pregiudizi, bambini anche in carrozzina, curiosi e turisti.
Pare che la vecchia regola del ‘contagio per contatto’, per cui ‘Se non sei contro di loro o, peggio, frequenti i gay, allora sei gay anche tu [e quindi vai trattato nello stesso modo]’, che è stata una delle difficoltà principali della mia generazione, abbia oggi molta meno presa sulla società di qualche anno fa.
- I numeri del Pride sono di gran lunga più elevati e la novità della “Onda Pride”
I partecipanti e gli eventi sono molto più numerosi di un tempo: Il Pride è oggi molto più pervasivo, non più incentrato soltanto sulle grandi aree metropolitane del Centro Nord del Paese, bensì presente anche in molti centri minori.
Su questi temi, due sono gli anni di svolta:
a) Il 2000, con il World Pride di Roma, organizzato in concomitanza del Grande Giubileo cattolico, che ha dimostrato che è possibile attivare sui temi LGBTQI vasti settori della società (oltre 500.000 furono i partecipanti ufficiali, un numero assolutamente inaspettato);
b) Il 2013, quando venne creata “Onda Pride”, ovvero il tentativo, poi riuscito, di sperimentare una nuova organizzazione in fatto di Pride: Non più un’unica manifestazione nazionale, verso cui dover far convergere tutti quanti, bensì la messa in rete tra tutti i Pride locali.
Fino al 2013 compreso, il modello di riferimento era il cosiddetto “Pride unico nazionale” – sulla scelta della cui sede le anime dell’associazionismo LGBTQI hanno spesso combattuto, con tregue e compromessi sfibranti e sanguinosi [nonché incomprensibili per la ‘base’].
Va per altro detto che, nonostante i grandi sforzi profusi, questi eventi non sono quasi mai riusciti a raccogliere l’interesse e a mobilitare la gran parte delle persone LGBTQI.
Il nuovo paradigma aveva invece l’obiettivo di stimolare l’autonomia e la responsabilità dei gruppi territori locali, nell’ambito di un quadro comune.
Nata come esperienza parallela al “Pride nazionale”, nel giro di soltanto un anno quello della “Onda Pride” è diventato lo schema seguito da tutti.
Sebbene talvolta si senta la mancanza di un solo appuntamento centrale, la scelta della “Onda Pride” ha comunque comportato un rilevante salto di qualità in fatto di capillarità, come evidenziano i seguenti numeri tratti dall’omonimo sito web:
- Nel 2013 ha coinvolto 5 città in 5 regioni
- Nel 2014: 13 città in 11 regioni
- Nel 2015: 15 città in 13 regioni
- Nel 2016: 21 città in 13 regioni
- Nel 2017: 24 città in 13 regioni
- Nel 2018: 28 città in 14 regioni
In 6 anni, “Onda Pride” ha toccato 48 città e cittadine, di varie dimensioni (non solo capoluoghi regionali e provinciali) ed ha coperto almeno una volta tutte le regioni tranne la Valle d’Aosta, le Marche e l’Abruzzo.
Questa è la lista, in ordine alfabetico, dei centri coinvolti: Alba, Alghero, Arezzo, Bari, Barletta, Benevento, Bergamo, Bologna, Brescia, Cagliari, Campobasso, Caserta, Catania, Cosenza, Firenze, Foggia, Gallipoli, Genova, Latina, Lecce, Mantova, Milano, Napoli, Novara, Ostia, Padova, Palermo, Pavia, Perugia, Pompei, Potenza, Reggio Calabria, Reggio Emilia, Rimini, Roma, Salerno, Sassari, Siena, Siracusa, Taranto, Torino, Trento, Treviso, Tropea, Udine, Varese, Venezia, Verona.
2)
CAMBIARE ULTERIORMENTE IL PRIDE?
Due aspetti sono invece rimasti pressoché immutati nel corso di questi anni, tanto da connotare una sorta di modello italiano di Pride:
- La complicatezza del suo manifesto politico
- Le sfide poste alle persone con ridotta capacità motoria dalla sua forma di corteo itinerante
– Per quanto riguarda la piattaforma rivendicativa, senza nulla togliere al suo valore simbolico, strategico e di sintesi tra le priorità delle diverse realtà promotrici del Pride, il rischio che si corre è che con essa si voglia ‘dire tutto su tutto… quindi probabilmente troppo, cioè forse niente’.
Il manifesto politico dei Pride è spesso un documento difficilmente accessibile per una persona LGBTQI interessata alla propria comunità ma priva di un’approfondita cultura politica.
Non è sempre facile cogliere il centro della disquisizione. D’altra parte, lo stesso linguaggio utilizzato, di frequente, non è facilmente comprensibile dai non-esperti.
>>> Seguendo i buoni esempi di altri Pride in altri Paesi, sarebbe auspicabile non tanto semplicare il ragionamento, quento invece migliorare l’efficacia della comunicazione verso l’esterno, al fine di raggiungere pubblici più ampi ed eterogenei di quelli finora cercati e già fidelizzati – in linea, del resto, con i cambiamenti già avvenuti in fatto di Pride.
Non è un’impresa possibile. Ne è prova il fatto che in questi ultimi anni è aumentata la qualità di molti interventi finali dal palco – forse perché c’erano meno realtà e autorità a cui dare obbligatoriamente il microfono, forse perché vari discorsi erano radicati su questioni locali, e quindi concreti e quotidiani.
– Per quanto riguarda, invece, il corteo, questa riflessione nasce da un’impressione: che al Pride non esistono le persone LGBTQI adulte, grandi adulte e anziane (che, per inciso, rappresentano la maggioranza della popolazione generale). In effetti, se si guarda con attenzione alle foto dei Pride, appare in tutta evidenza che i partecipanti sono in stragrande maggioranza persone normodate in età giovanissima, giovane e giovane adulta.
Quello della invisibilità delle persone con disabilità e degli anziani all’interno della comunità LGBTQI è un problema complesso e tuttora irrolto. Pare quasi che, ad una certa età, scatti l’ora della sparizione e sostituzione. Ciò avviene, seppur meno frequentemente di un tempo, sia per le persone che partecipano alla vità della comunità, sia per i volontari attivi nelle associazioni.
Questa sfida va certamente oltre del Pride, chiaramente. Allo stesso tempo, però, nel Pride trova un’opportunità di miglioramento.
>>> Di nuovo, seguendo i buoni esempi di altri Pride in altri Paesi, sarebbe auspicabile incardinare il Pride nel valore dell’accessibilità – in termini sia di percorso (manto stradale, possibilità di muoversi su ruote… ) che di servizi accessori (sedie e WC, innanzitutto).
Sappiamo bene che il format del Pride all’italiana prevede che, per parteciparvi appieno, sia necessario stare in piedi tutto il tempo e, al massimo, trovare una temporanea soluzione di fortuna per riposarsi un po’; richiede di camminare, in un pomeriggio d’estate, dal luogo del concentramento iniziale fino a dove è stato allestito il palco per i discorsi finali; implica che la parte più divertente sia ballare e saltare a ritmo di musica, mentre si procede lungo il tragitto, sempre in movimento.
E’ possibile innovare questo format? Siamo disposti a sperimentare delle novità per renderlo potenzialmente più gradito nei confronti di nuove fasce della popolazione? Soprattutto, ci va di non replicarlo uguale ogni anno, senza pensare all’effetto che questo comporta sulle persone? Infine, ce la facciamo a reagire positivamente alla provocazione per cui, attualmente, per poter partecipare ad un Pride serve il certificato di sana e robusta costituzione?